Giulio Aristide Sartorio (Roma 1860 - 1932)

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Giulio Aristide Sartorio

Dati biografici sull'artista

Nato in una famiglia che viveva esercitando l'arte appresi ad amarla fra le mura domestiche e l'idea se ne plasmò nei musei, sulle pareti istoriate del Vaticano, nella campagna romana.

La scultura ellenistica, la pittura decorativa del rinascimento ed il suggestivo paese che vide i drammi più significativi dell'umanità furono le immagini che dall'adolescenza mi foggiarono uno spirito.

Imparai a disprezzare l'accademia, la così detta arte storica, il naturalismo pittorico e se, assillato dalla necessità, feci un poco di tutto il disegnatore d'architettura, il copista, il pittore mercantile e perfino il professore tedesco, la fiamma accesa dalle mani affettuose del padre nel santuario dell'arte italiana non si è spenta mai.

Entrato con queste doti nell'arringo della vita dovevo fallire: lo stato mentale delle arti contemporanee era negativo.

Invece la sorte mi fu benigna e sebbene attraverso lotte ininterrotte, qualche volta tragicomiche, nelle circostanze decisive del mio avvenire ottenni quei buoni successi morali che erano necessari a raggiungere la meta.

Il due giugno 1915 a Lucinico, davanti alla pattuglia austriaca che mi sbarrò la strada io dovevo morire.

Ero solo.

Nei pressi del Prevallo sotto al Podgora, nell'antecedente scontro con una pattuglia nemica la scorta ed i colleghi mi avevano abbandonato in una situazione disperata.

Ero riuscito ad eludere, a disimpegnarmi dai nemici, ma avevo invano, cercato i miei compagni, essi erano coraggiosamente fuggiti.

Continuavo solo la missione affidatami dal comando ed allora: all'altezza della fattoria Miani, nel breve intervallo che mi separava dalla nuova pattuglia nemica, mentre spronavo contro di loro il cavallo nel folle ma inevitabile tentativo di sfondare, io vidi in un attimo tutta la mia vita.

L'avevo trascorsa per accrescere idealità all'arte italiana e meritavo la morte degna.

Morì, crivellato di proiettili, il cavallo, ma qualche cosa di me è pure morto.

Avevo avuto per assioma nella mia impresa che l'arte italiana deve essere eterna, avevo spesa la vita a realizzare l'assioma e se la fortuna era stata favorevole a tale presupposto fantastico, non poteva rinnovarsi.

Il sogno doveva morire.

Oggi, nella palingenesi, domando di esprimere l'attualità e significare i sorrisi dell'ottimismo.

Nell'ospedale di Gorizia il dottore Francesco Marani mi salvò anche la gamba destra condannata all'amputazione, cosicché questa esistenza sopravvenuta, circondata com'è da una famiglia felice formatasi dopo la guerra, mi pare un paradiso inaspettato.

L'esteriorità plastica di questa vita nuova si vede esposta ora nella galleria Pesaro.

Movendo da impressioni incancellabili della giovinezza, arriva alla squisita realtà odierna e se supera le mura casalinghe si scalda a quel soffio di passione che pervade la vita nazionale.

I nostri figli anche perciò hanno, diritto ad essere seducenti, perché adulti vedranno cose grandi.

(da Galleria Pesaro)