Angelo Morbelli (Alessandria 1853 - Milano 1919)

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Angelo Morbelli

Valutazione dipinti Angelo Morbelli

Le quotazioni dei dipinti divisionisti con soggetti più impegnati e di cronaca sociale vanno in media dai 10.000 euro ai 90.000 euro. I paesaggi lacustri, montani  e lagunari di piccole dimensioni sono valutati in media dai 5.000 euro ai 20.000 euro, invece gli oli di qualità arrivano ai 60/70.000 euro. I capolavori  possono superare i 500.000 euro.


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Dati biografici sull'artista

Uno dei quaranta quadri moderni che rappresentano attualmente alla Esposizione dell'Arte Italiana di Londra la pittura del diciannovesimo secolo è di Angelo Morbelli.

Si intitola «Il Natale dei rimasti»: fu inviato dalla Galleria Internazionale d'arte moderna di Venezia.

E' un quadro tipico di quella serie dei «vecchioni» che diede al Morbelli la popolarità e la gloria e gli aperse le difficili porte di alcune grandi Gallerie Internazionali e Italiane: tra le altre quella del Lussemburgo e quella di Roma.

Era nato ad Alessandria in Piemonte, nel 1852; morì a Milano nel 1919.

Tutta la sua biografia è scarna; senza avvenimenti e senza date che non siano quelle strettamente legate alla sua opera.

Gli anni sono misurati dai quadri; la giovinezza, la maturità, la vecchiaia separate da conversioni pittoriche o mutamenti di maniere o inquietudini d'arte.

Studiò nei primi anni all'Accademia di Brera, a vent'anni voleva dedicarsi alla musica; ma un'incipiente sordità, cresciuta poi di mano in mano e incupitasi fino alla fine della vita, volse la sua sensibilità dalla musica alla pittura.

Aveva studio negli ultimi tempi in via Pasquale Paoli e, per raggiungere la grande camera dove lavorava senza tregua dalla mattina alla sera, si serviva di una passerella che varcava dall'uno all'altro tutta una corona di tetti.

Molte giornate passava nell'Ospizio dei vecchi, il Pio Luogo Trivulzio in Via della Signora, dove aveva i cavalletti, le tele, le tavolozze e dove i vecchioni, i suoi affezionati e pazienti modelli, lo, consideravano come un amico.

Era la sua seconda famiglia.

Coi figlioli e con la moglie stava sopra tutto in campagna, alla Colma presso Casale Monferrato e durante il periodo delle vacanze in montagna, a Usseglio, a Santa Caterina, a Laveno nella Villa Galbiati.

Di quei suoi soggiorni esistono le documentazioni felici nei quadri: ma del suo tormento di artista, del suo appassionato e costante lavorio di indagatore e di studioso della tecnica pittorica esiste la testimonianza in un piccolo manoscritto autografo, redatto tra il 1912 e il 1913 e fino ad oggi inedito.

Si intitola: «Quaderno delle speranze, sconfitte, vittorie della tecnica divisionistica; appunti e osservazioni, dubbi, certezze, coscienti ed incoscienti! con auree sentenze, motti dei più noti artisti.

Per l'umile scolaro della natura: A. Morbelli».

In tutto una quarantina di pagine riempite di una scrittura regolare e burocratica spaziata da un centinaio di capiversi numerati come versetti biblici.

Vi si cercherebbero invano appunti biografici ed autobiografici, divagazioni letterarie o invocazioni liriche.

Non sono che consigli, risposte a dubbii pratici, ricette di pittura, formule vere e proprie coloristiche.

Rivelano ancora una volta quante e quali siano le necessità insuperabili del «mestiere dell'arte», le immutabili esigenze per ogni artista di creare un sostegno tecnico al proprio modo di espressione.

Le esperienze del Morbelli durate per una quarantina d'anni e riassunte nel 1912, talora sono conclusive tal'altra dubitative.

Si indovina tra le righe l'ansia del pittore che teme di non arrivare in tempo a scoprire il vero assoluto e definitivo dell'arte: «Complessa la questione, adottare i colori puri anche nelle ombre oppure mescolati, smorzati?»,«Osservare se i colori per trasparenza e velati fanno lontano? e vicino i colori opachi o chiari?».

«Tenendo le ombre del colore complementare a quello in luce... in distanza è certo che si acquista un'ombra, una vita... (studiar Rembrandt)».

Il dialogo autocritico del pittore è incessante: a volte egli si rimprovera:

«Bisogna proprio abolire quella virtuosità del colorire a spatola.

A morte la spatola!», «Bisogna proprio abbandonare l'abitudine di considerare i colori solo come tinte; bisogna considerarli come luci più o meno pure», «Accidempoli! non bisogna aver timore di adoperar schietti i colori più bassi per esempio le lacche, quella verde ecc.».

Rade volte Morbelli si entusiasma: «Oh! la limpida trasparenza nei cieli quando un colore neutro grigio o bianco divide i due colori antagonisti!»

La sua fede è, si comprende, nel divisionismo:« Il divisionismo è la prospettiva dell'aria»,«Il divisionismo dà o dovrebbe dare la sensazione dell'evidenza».

Di tutti i divisionisti lombardi egli fu, all'atto pratico, il più integrale; ma dietro il suo teorizzare molte volte spontaneo alcune volte con citazioni riflesse o di seconda mano, si avverte la presenza di Vittore Grubicy.

L'influsso de' suoi ammaestramenti pacati, ostinati e, direi, implacabili, è costante dietro le parole che abbiamo citate come dietro le pennellate di Segantini, di Previati, di Pellizza, dello stesso Morbelli per parlare soltanto dei morti e per ricordare i maggiori astri del sistema planetario divisionista.

Certo, senza l'apostolato di Grubicy il divisionismo non avrebbe avuto la vastità e la profondità di un «fenomeno pittorico»: probabilmente non sarebbe nato; ma anche senza Grubicy i pittori che abbiamo nominato avrebbero potuto esprimere il loro «io» sensibile.

La conversione al divisionismo fu il prodotto di un abbaglio o la testimonianza di una convinzione?

Inutile domanda che ricorda l'ipotesi: «Se il naso di Cleopatra fosse stato due centimetri più lungo, il corso della storia sarebbe mutato».

I pittori che giurarono nel credo della divisione del colore non erano uniti tra loro soltanto da una parentela estetica ed esteriore; ma anche avvicinati l'uno all'altro da una stessa idealità.

Essi aspiravano a far un'arte, non di pensiero, che sarebbe illogico, o di sentimento, che sarebbe ridicolo; ma tendevano a circondare la realtà pittorica di una luce che per essere maggiore e diversa da quella usata dagli altri pittori in tutti i tempi, fosse la sintesi di un modo di concepire la vita reale e di fissarla nell'arte.

Per premio la sorte li accomunò tutti e cinque in una tragica fine: Segantini muore quarantenne sullo Schafberg, Previati agonizza pazzo tra i fantasmi del Re Sole e del Carroccio, Pellizza si uccide appiccandosi in un granaio, Morbelli si spegne in una sordità chiusa e inguaribile come quella del suo Maestro:

Grubicy.

 

* * *

 

Per Morbelli come per Segantini e per Previati il divisionismo non rappresenta sulle prime che un mezzo di espressione.

La loro personalità esiste anche prima della loro conversione: ricerche di luminosità esistono anche nel Morbelli della prima maniera quale è rappresentata dal quadro della Pinacoteca di Alessandria «In Risaia» dal primo quadro dei «vecchioni» intitolato: «Il viatico» e da tele minori.

Ne «La lettera» che è del 1890 gli accenni divisionistici sono già evidenti e innegabili.

Il Morbelli fa le prove del nuovo metodo col più difficile esperimento: quello della figura umana.

Nella pittura divisionistica della figura umana egli non fu superato: nè da Segantini quando dipinse il «Ritratto di Carlo Rota» e il «Donizetti» e nemmeno dall'imponente «Quarto stato» di Pellizza da Volpedo.

Ne «La lettera» il divisionismo è applicato non soltanto alla lontananza del paesaggio e alla cornice trasparente delle fronde, ma anche al chiaroscuro della bella giovinetta che ha il viso reclinato nella posa della lettura.

E' il ritratto di colei che doveva poi divenire la fedele moglie del Morbelli e che egli soleva chiamare dialettalmente da un capo all'altro della casa col nomignolo affettuoso di Belamièe: bella moglie.

Se anche questi primi quadri non lo rivelassero, gli appunti del manoscritto basterebbero a indicarci il segreto divisionista di Angelo Morbelli.

Il problema del colore non è per lui che un problema di luci e più precisamente di chiaroscuro.

La scomposizione del colore è un mezzo nuovo e diverso da quello tradizionale per dar valore alle parti in ombra e alle parti illuminate.

La genesi de' suoi quadri, come ci appare dagli abbozzi e dai cartoni a carboncino esposti qui per la prima volta, si risolve in una successione di preparazioni.

Il Morbelli si poneva davanti al vero e faceva un primo abbozzo del quadro a colori mescolati, secondo la antica maniera.

Tornato in istudio ingrandiva l'abbozzo e ne faceva un cartone in bianco e nero realizzando in ogni particolare la più scrupolosa perfezione di chiaroscuro.

Terminata questa «negativa del quadro», se così si può chiamare, la squadrava e sulla tela dipingeva dopo averli riportati uno ad uno tutti i quadretti.

Questa pittura definitiva era trattata con infiniti filamenti di colore puro.

Per le necessità tecniche del lavoro pazientissimo e in gran parte meccanico, egli si serviva di pennelli appositamente preparati con parecchie piccole punte.

Il chiaroscuro bianconero si trasformava in un chiaroscuro colorato: ma egli invocava la frase attribuita a Tiziano che il nero e il bianco sono i colori più preziosi.

L'improvvisazione veniva fissata per mille aderenze alla tela, l'emozione era cristallizzata in una formula come lo splendore del quarzo nel poliedro.

Lasciò i soggetti storici coi quali aveva fatto il suo ingresso nell'arte dipingendo secondo la moda del tempo una Morte di Goethe, passò attraverso il simbolismo facile del Trittico della vita che rappresenta nel quadro centrale due amanti seminudi affacciati sulla notte di un giardino primaverile, mentre, ai lati, un vecchio e una vecchia impersonano il triste crepuscolo della vita cominciata radiosamente.

Provò il potere della sua tavolozza vincendo nel 1914 il Premio Ussi con l'Interno della Chiesa di San Celso (un altro grande divisionista, Giovanni Segantini, aveva fatto le prime prove con l'interno della Chiesa di Sant'Antonio): all'aperto studiò in tutte le gradazioni di luce a tutte le ore il suo giardinetto alla Colma paesaggi di montagna e lacustri riassumendo la visione del lago d'Iseo dietro la figura romanticamente accasciata di una donna e intitolandola «È l'ora che volge il desio».

Pochi anni prima di morire passò qualche tempo a Burano, istrumentò le sinfonie coloristiche lagunari in «Messa prima»,«E l'ora che volge il desio», in altri quadretti che dovevano svilupparsi più ampiamente nella laboriosa pace dello studio.

Continuava a provare, continuava a studiare: frequentò fino agli ultimi anni la Scuola Serale di nudo alla «Società Patriottica», apparve a diverse Esposizioni con le piccole luminose tele di paesaggio.

Potè leggere i primi anatemi in cui si denunciava che il divisionismo era morto; Morbelli non lo abbandonò.

Fu un uomo fedele, ai motivi della sua arte e della sua poesia.

 

* * *

 

La popolarità e la gloria nel definire la sua personalità e nell'aprirgli le porte dei Musei Internazionali furono originate dalla serie dei suoi quadri ispirati e intitolati ai vecchi dell'Ospizio.

Bisognava superare i modesti confini borghesi del quadretto di genere e bisognava evitare l'illusione di un'arte sociale che abbagliò tanti ingegni e suggerì tra l'altro: «Il Quarto stato» a Pellizza da Volpedo.

Il primo quadro morbelliano ispirato alla vecchiaia è del 1883 e si intitola: Il viatico; l'ultimo è di trent'anni dopo.

Nel primo si avvertono convenzionalità, indugi accademici e letterari che nei successivi scompaiono.

In quei trent'anni, poco a poco, pazientemente come un decifratore di palinsesti o un esploratore di Oceani, Angelo Morbelli approfondisce la sua conoscenza di un mondo.

I vecchi poveri di Milano raccolti per carità di un benefico lascito Trivulzio, non erano ancora banditi dalla città e relegati alla Baggina; ma abitavano l'antico palazzo signorile, il «Luogo Pio Trivulzio», in via della Signora.

A pochi passi dall'Ospizio avevano il Verziere coi rivenduglioli di frutta e di belêe, Piazza Fontana, l'Ospedale Maggiore (la Cà Granada), il Duomo, tanto che ne scorgevano dalle più alte finestre le guglie e ne udivano il campanone.

La loro miserabile santa vecchiaia era custodita e quasi covata nel cuore della città.

Pareva un titolo di nobiltà più che di vergogna il mescolarsi delle uniformi color tabacco alle variopinte e vaghe toilettes delle signore d'anteguerra.

Si poteva porger la mano, offrire un sigaro o un poncino ai vecchioni in vacanza incontrati per strada.

Ora i vecchi poveri sono riuniti nella gran casa, sull'orlo della Metropoli come sovra un Radeau de Meduse che lanci spesso vane segnalazioni alle quali la navigazione frettolosa e utilitaria della vita moderna non permette di rispondere.

Angelo Morbelli, sordo dai vent'anni (tanto che aveva abbandonato lo studio della musica per intraprendere quello della pittura) ne aveva meno di trenta quando cominciò a frequentare i veggioni.

Per un destino comune a molte forme della vita umana, questa Istituzione di carità trovò il suo pittore e il suo storico quando essa stava per trasformarsi.

Mentre tanta pittura e letteratura fin-de-siècle si ispiravano alle donne fatali raffigurandole sullo sfondo di cincischiature liberty o di stilizzazioni floreali, il Morbelli traeva lo spunto della sua pittura dalle fisionomie dalle pose dai gesti dei vecchioni.

(Nell'uso milanese i ricoverati del Luogo Pio Trivulzio sono vecchi per eccellenza, più che vecchi: i vecchioni).

Morbelli chinava la pensosa e corrugata fronte l'acuta indagine sulle loro memorie svanite sui loro sguardi appannati.

I vecchi dell'Ospizio morivano presto, si sostituivano a pochi anni d'intervallo: era una nuova ondata di ricordi che emergevano e tra poco sarebbero dileguati per sempre.

Echi del quarantotto, del cinquantanove, poesia di tutto un secolo.

L'ex - ballerina del Carcano, la frusta commediante che aveva recitato con Gustavo Modena, l'antico volontario di Garibaldi, il servitore fedele e il cocchiere padronale licenziati per tarda età andavano incontro al Morbelli come ad un amico.

Posavano per lui.

Il pittore che camminava nella vita senza udirne le musiche, le voci, i tuoni; il pittore per il quale il mondo era muto, trovava soltanto qui, tra questi épaves di naufragi, il mormorio delle grandi onde che compongono la sinfonia dell'universo.

L'umanitarismo sociale di Zola le notazioni sataniche dei Baudelaire e dei Rops furono, nell'interpretazione della vecchiaia superate da questo pittore della meschinità.

Egli si appassionò poco alla volta agli episodi più comuni di quella vita crepuscolare: il viatico, la prima neve, il giorno di festa, la calza, la canzone della giovinezza, la partita a tarocchi, furono spunti di altrettanti quadri.

Dopo i primi tentativi la scena si spopola, le fisionomie si smarriscono, le armonie si sintetizzano in poche pose in gesti riassuntivi sempre più sobrii.

Attorno a quel vagare incerto di passi a quel tossire rantoloso prendono corpo e ritmo gli schemi impassibili delle finestre, delle porte, dei panconi piallati che ricordano la liscia nudità della bara.

Un elemento trascendentale che definirei maeterlinchiano si realizza attraverso le pennellate luminose del divisionista.

Attorno alle macchiette c'è un'aureola di presagi ultraterreni.

I mobili impregnati di vecchiezza, le luci radenti intrise di agonie assumono man mano nei quadri l'importanza di protagonisti.

Il sentimento tra quel mistero di proiezioni e di ombre è semplice ed onesto, chiaro come la pittura.

Tipico Il Natale dei rimasti: sulla geometria solida dei panconi stanno due vecchi, uno col capo abbandonato e il viso nascosto sulle braccia incrociate l'altro assorto a capo chino: nel fondo della camerata vuota un terzo vecchio sta come appiccicato al blocco della stufa, le braccia levate, le mani aperte a raccogliere l'ultimo tepore del fuoco.

Sarebbe un quadro qualunque se il significato non gli venisse dall'atmosfera di luce: un raggio di sole scivola radente da una finestra invisibile: il pallido oro rimbalza di piano in piano fino alla parete di fondo.

La camerata è tagliata in due dallo spettro luminoso che sul banco davanti al vecchio a capo chino proietta l'ombra rigida e fatale di una croce.

Senza il soccorso del divisionismo questo quadro che ha tutto il suo valore nell'espressione della luce sarebbe senza significato.

E basterebbe a provare che la tecnica non si prende a prestito, non è disgiunta dall'ispirazione; ma incorporata in essa è «un certo modo di dipingere che corrisponde a un certo modo vedere».

E diremmo «di sentire» se la ricerca del sentimento ancora usasse nella critica delle arti plastiche.

La più antica pittura del Morbelli si era ispirata al paesaggio delle risaie alla miseria delle giovani donne emergenti in fila dai grandi acquitrini azzurreggianti; l'ultima ritornò alla miseria della vecchiaia morente dietro i doppi vetri appannati e le persiane dell'Ospizio.

Nelle tele dei «vecchioni» sopra la gola l'avarizia, l'egoismo smorzati e quasi estinti ridotti infantili e come embrionali la morte è presente: in un cavo d'ombra sul filo di un polverio luminoso.

Non mai paurosa e temibile.

Una sola volta egli ne concretò lo spavento dipingendo tre vecchie filatrici e intitolandole Le Parche.

Poi quando dipinse l'autoritratto (al quale mancano poche pennellate di finitura per essere il suo capolavoro) raffigurò sul primo piano una giovane donna: ignuda.

Raccolta e no pudica, fiore rorido di carni rosee con leggere ombre e trasparenze di conchiglia.

La donna si riflette di dorso in uno specchio dove è anche inscritta la figura attenta del pittore, in piedi, con la tavolozza tra le mani su lo sfondo di un quadro: un quadro di «vecchione».

Egli sta tra lo splendore profumato della giovane accarezzata pittoricamente e sensualmente in ogni particolare con una specie di sosta luminosa attorno alla modellazione dei polsi delle caviglie del seno, e l'austera visione delle vecchie teste canute in una gelida luce di neve.

Così, come un romantico: tra la vita e la morte: a metà del cammino che conduce dalla tentazione alla trasfigurazione.

RAFFAELE CALZINI

Tratto da: La Galleria Pesaro - Mostra postuma di A. MORBELLI ed Esposizione personale di V. GEMIGNANI

 

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